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Malas hierbas

Scritto da Jessica Moroni. Postato in Performance

Malas hierbas, 2020. Espai Souvenir, Barcelona. Curated by Angelica Tognetti.

 

Malas hierbas. Fabric, filling, potting soil, weeds. 2018-2020

 

 Malas hierbas.Details.

 

Malas hierbas.Details.

 

Malas hierbas. Jessica Moroni. Espai Souvenir 31.01.2020 - 04.03.2020  

EN VERSION

There are plants out there, emerging and taking advantage of unsuspecting cracks, finding ways to thrive, appearing where we least expect them.

Itxaso Corral Arrieta, Street Botanographies.

 

Weeds never die: they resist, sneak in, infiltrate, break through the asphalt in search of gaps to breathe and grow, spaces to be. These are plants that grow wild, spontaneously and magically; most of them possess forgotten beneficial properties.

Despite their qualities, any plant can be considered a weed or nuisance, according to common language, if it grows in an undesirable place. These places that define what is or is not desirable are spaces dominated and controlled by a productive man: a crop, a garden, the sidewalk, a pot.

Jessica Moroni, with her installation "Weeds," creates a microclimate within Espai Souvenir, a fictitious ecosystem to recall these forgotten plants, care for them, and protect them by stimulating their sustenance and reproduction. Through an organic and padded architecture, she allows us to stroll among them (rue, marigold, thistle, and other unclassified species), touch and smell them, and take the time to observe their unique morphology. The exhibition space becomes a place where weeds become desirable, and we become organisms that open ourselves to listening to them.

"Weeds" is a metamorphosis: it is the new life that the artist has granted to her sculptures Simbiosi (2018). Before, the yellow forms that occupy the room started as lifeless and amorphous bodies merging with nature: as the entrance screenprints narrate, their shape was defined in relation to the objects - logs or branches - on which they rested. These elongated bodies now become a hanging structure, the base to grow something alive. They become vulnerable, opening their bodies to grow within themselves a terrain overflowing with weeds.

The title of the exhibition refers to what the room contains: an abundance of weeds or, as dictionaries would define, a weed. Instead of cultivating an orderly garden of "good herbs," the artist celebrates a garden overflowing with weeds, a hanging jungle, inviting us to a critical reflection on Western ways of thinking, categorizing, and dominating nature, as well as Christian forms of attributing moral order.

Making space for weeds to grow and breathe.

Metaphorically, the installation criticizes the ways in which, within the capitalist and patriarchal system, we relate to nature itself and how these ways have led to the current catastrophic environmental crisis.

From an ecofeminist perspective, the artist's desire to make space for weeds to sprout represents an invitation to embrace disappearing biodiversity and to reflect on modes of domination and extermination that have led to the forgetting of a vast set of knowledge rooted in the earth and bodies.

In the time preceding the Scientific Revolution and the institution of capitalist mentality, nature was conceived as a complex and magical organism. The cosmos was "imagined as a living organism populated by hidden forces where each element was in favorable relation to the rest." The healing art was considered a sacred power and was closely linked to women: they were the first to possess practical knowledge about the flora around them; they knew the language of herbs and used them to heal.

With the violent imposition of modern science and the professionalization of medical practices, control and classification of what was good or bad began from an academic perspective. Simultaneously, there was a delegitimization of those women who embodied a fundamental role within local communities as healers, as they were considered rivals to the patriarchal hegemonic view. Women healers were progressively deprived of their empirical knowledge regarding herbs and their remedies. Healers became witches, and herbs became weeds: the former were subjected to selective massacres, and the latter were uprooted, taking with them a whole set of knowledge, practices, and rituals.

Jessica Moroni, in the "Weeds" installation, wants to place us in front of this story, a story that classifies, selects, dominates, uproots, and exterminates. So that we do not forget that "we are people embodied in vulnerable bodies inserted into a planet with physical limits." And at the same time, she tells us about another story that resists: the story of nature, care, women, and weeds.

 

 

IT VERSION

Ci sono piante che spuntano ovunque; approfittando di fessure distratte, si insinuano e trovano modi per andare avanti, apparendo dove meno ce lo aspettiamo.
Itxaso Corral Arrieta, Botanografie urbane.

Le erbe infestanti non muoiono mai: resistono, si infiltrano, aprono l'asfalto in cerca di spazi per respirare e crescere, spazi per esistere. Sono piante che crescono in modo selvatico, spontaneo e magico; la maggior parte di esse possiede proprietà benefiche dimenticate.

Nonostante le loro qualità, qualsiasi pianta può essere considerata un'erbaccia o infestante, secondo il linguaggio comune, se cresce in un luogo in cui non è desiderabile. Questi luoghi che definiscono ciò che è o non è desiderabile sono spazi dominati e controllati dall'uomo produttivista: un campo, un giardino, il marciapiede di una strada, un vaso.

Jessica Moroni, con la sua installazione Malas hierbas, crea all'interno dello spazio Souvenir un microclima, un ecosistema fittizio per ricordare queste piante dimenticate, prendersene cura e proteggerle stimolandone il sostentamento e la riproduzione. Attraverso un'architettura organica e soffice, ci permette di passeggiare tra di loro (la ruta, la calendula, la cardo e altre specie non classificate), toccarle e odorarle, prendendoci il tempo per osservarne la particolare morfologia. La sala espositiva diventa così uno spazio in cui le erbe infestanti diventano desiderabili e noi diventiamo organismi che si aprono al loro ascolto.

Malas hierbas è una metamorfosi: è la nuova vita che l'artista ha conferito alle sue sculture Simbiosi (2018). Inizialmente, le forme gialle che occupano la sala erano corpi inermi e amorfi in fusione con la natura: come raccontano le serigrafie all'ingresso, la loro forma si definiva in relazione agli oggetti - tronchi o rami - su cui si appoggiavano. Questi corpi allungati si trasformano ora in una struttura appesa, la base per far crescere qualcosa di vivo. Diventano vulnerabili, aprono il loro corpo per far crescere al loro interno un terreno ricco di erbe infestanti.

Il titolo dell'esposizione fa riferimento a ciò che la sala contiene: un'abbondanza di erbe infestanti o, come definirebbero i dizionari, una vegetazione fitta. L'artista, invece di coltivare un giardino ordinato di "buone erbe", celebra un giardino traboccante di erbe infestanti, una giungla sospesa, proponendoci una riflessione critica sui modi occidentali di pensare, categorizzare e dominare la natura, così come sulle forme cristiane di attribuirle un ordine morale.

Lasciare spazio affinché le erbe infestanti possano crescere e respirare.

L'installazione proietta in modo metaforico una critica sulle modalità con cui, all'interno del sistema capitalista e patriarcale, ci rapportiamo alla natura stessa e su come queste forme ci abbiano portato all'attuale e catastrofica crisi ambientale.

Da una prospettiva ecofemminista, il desiderio dell'artista di lasciare spazio affinché le erbe infestanti possano germogliare rappresenta un invito ad abbracciare la biodiversità che sta scomparendo, e anche a riflettere sulle modalità di dominio ed estinzione che hanno portato all'oblio un insieme vasto di conoscenze radicate nella terra e nei corpi.

Nell'epoca che precede la Rivoluzione Scientifica e l'istituzione della mentalità capitalista, la natura era concepita come un organismo complesso e magico. Si "immaginava il cosmo come un organismo vivente popolato da forze occulte in cui ogni elemento era in relazione favorevole con il resto". L'arte della guarigione era considerata un potere sacro ed era strettamente legata alle donne: furono loro le prime a possedere una conoscenza pratica sulla flora circostante; conoscevano il linguaggio delle erbe e le utilizzavano per curare e guarire.

Con l'imposizione violenta della scienza moderna e la professionalizzazione delle pratiche mediche, iniziò a esercitarsi un controllo e una classificazione su ciò che era buono o cattivo dal punto di vista accademico. Allo stesso tempo, si diffuse una svalutazione di queste donne che incarnavano un ruolo fondamentale all'interno delle comunità locali come guaritrici, considerate rivali alla visione patriarcale diventata egemone. Alle donne guaritrici fu progressivamente espropriato il loro sapere empirico legato alle erbe e ai loro rimedi. Le guaritrici divennero streghe e le erbe furono considerate erbacce: le prime furono oggetto di massacri selettivi, le seconde furono estirpate portando con sé l'insieme di conoscenze, pratiche e rituali che le circondava.

Jessica Moroni, con l'installazione Malas hierbas, vuole metterci di fronte a questa storia, una storia che classifica, seleziona, domina, estirpa ed elimina. Per non dimenticare che "siamo persone incarnate in corpi vulnerabili inserite in un pianeta con limiti fisici". Allo stesso tempo, ci parla di un'altra storia che resiste: quella della natura, del prendersi cura, delle donne, delle erbe infestanti.

 

Angelica Tognetti

[1] Silvia Federici. "Caliban and the Witch: Women, the Body, and Primitive Accumulation." Madrid: Traficantes de Sueños.

[2] Susan B. Blum (1974): "Women, Witches, and Herbals" in The Morris Arboretum Bulletin no. 25

[3] Yayo Herrero (2018): "Subjects rooted in the earth and in the bodies. Towards an anthropology that recognizes limits and vulnerability" in Petróleo. Barcelona: Arcadia.

 

 

 

Spanish version

 

 

Hay plantas que están por ahí aflorando, aprovechando rendijas despistadas se cuelan y encuentran las maneras de salir adelante, apareciendo donde menos nos las esperamos.

Itxaso Corral Arrieta, Botanografías Callejeras.

 

 

Las malas hierbas nunca mueren: resisten, se cuelan, se infiltran, abren el asfalto en búsqueda de huecos para poder respirar y crecer, espacios para poder ser. Son plantas que crecen de forma silvestre, espontánea y mágica; la mayoría de ellas posee propiedades benéficas olvidadas. 

Pese a sus cualidades, cualquier planta puede ser considerada mala hierba o maleza, según el lenguaje común, si crece en un lugar en el que no es deseable. Estos lugares que definen lo que es o no deseable son espacios dominados y controlados por el hombre productivista: un cultivo, un jardín, la acera de la calle, una maceta. 

 

Jessica Moroni con su instalación Malas hierbas genera dentro del Espai Souvenir un microclima, un ecosistema ficticio para rememorar estas plantas olvidadas, cuidarlas y protegerlas estimulando su sustento y reproducción. A través de una arquitectura orgánica y acolchada, nos permite pasearnos entre ellas (la ruda, la caléndula, la cardota  y otras especies no clasificadas), tocarlas y olerlas, darnos el tiempo para observar su particular morfología. La sala expositiva se convierte así en un espacio donde las malas hierbas se vuelven deseables y nosotras en unos organismos que nos abrimos a su escucha. 

 

Malas hierbas es una metamorfosis: es la nueva vida que la artista ha concedido a sus esculturas Simbiosi (2018). Antes, las formas amarillas que ocupan la sala empezaron siendo unos cuerpos inermes y amorfos en fusión con la naturaleza: como relatan las serigrafías de la entrada, su forma se definía en relación con los objetos - troncos o ramas - sobre los cuales se apoyaban. Estos cuerpos alargados se convierten ahora en una estructura colgante, la base para hacer crecer algo vivo. Se vuelven vulnerables, abren su cuerpo para hacer crecer dentro de sí un terreno rebosante de malas hierbas.

 

El título de la exposición hace referencia a lo que la sala contiene: una abundancia de malas hierbas o, como definirían los diccionarios, una maleza. La artista, en vez de cultivar un jardín ordenado de “buenas hierbas”, celebra un jardín desbordante de maleza, una jungla colgante, proponiendonos una reflexión crítica sobre los modos occidentales de pensar, categorizar y dominar la naturaleza, así como las formas cristianas de atribuirle un orden moral. 

 

Dejar espacio para que las malas hierbas puedan crecer y respirar. 

 

La instalación proyecta de forma metafórica una crítica sobre las formas con las que, dentro del sistema capitalista y patriarcal, nos relacionamos con la propia naturaleza y cómo estas formas nos han conducido a la actual y catastrófica crisis ambiental. 

 

Desde una mirada ecofeminista, el deseo de la artista de dejar espacio para que las malas hierbas puedan brotar representa una invitación a abrazar la biodiversidad que está desapareciendo, y también a reflexionar sobre los modos de dominación y exterminio que han llevado al olvido un conjunto ingente de saberes arraigados en la tierra y en los cuerpos. 

 

En la época que precede la Revolución Científica y la institución de la mentalidad capitalista, la naturaleza era concebida como un organismo complejo y mágico. Se “imaginaba el cosmos como un organismo viviente poblado de fuerzas ocultas donde cada elemento estaba en relación favorable con el resto”.1 El arte de sanar era considerado como un poder sagrado y estaba estrictamente ligado a las mujeres: fueron ellas las primeras en poseer un conocimiento práctico sobre la flora de sus alrededores; conocían el lenguaje de las hierbas y las utilizaban para curar y sanar. 

 

Con la imposición violenta de la ciencia moderna y la profesionalización de las prácticas médicas, empezó a ejercerse un control y clasificación sobre lo que era bueno o malo desde la mirada académica. Y a la vez se extendió una deslegitimación de esas mujeres que encarnaban un rol fundamental dentro de las comunidades locales como sanadoras, por considerarse rivales a la mirada patriarcal devenida hegemónica.2 A las mujeres sanadoras se les expropió progresivamente su saber empírico en relación con las hierbas y sus remedios. Las curanderas se convirtieron en brujas y las hierbas en malas hierbas: las primeras fueron objeto de matanzas selectivas, las segundas se extirparon y arrancando con ellas el conjunto de conocimientos, prácticas y rituales que las rodeaba. 

 

Jessica Moroni en la instalación Malas hierbas quiere situarnos frente a esta historia, una historia que clasifica, selecciona, domina, extirpa y extermina. Para que no nos olvidemos que “somos personas encarnadas en cuerpos vulnerables insertas en un planeta con límites físicos”.3 Y, al mismo tiempo, hablarnos de otra historia que resiste: la de la naturaleza, la del cuidado, la de las mujeres, la de las malas hierbas. 

 

 Angelica Tognetti

 

[1] Silvia Federici. Calibán y la bruja. Mujeres, cuerpo y acumulación originaria. Madrid: Traficantes de Sueños.

[2] Susan B. Blum (1974): “Women, Witches and Herbals” en The Morris Arboretum Bulletin nº 25 

[3] Yayo Herrero (2018): “Sujetos arraigados en la tierra y en los cuerpos. Hacia una antropología que reconozca los límites y la vulnerabilidad” en Petróleo. Barcelona: Arcadia.

 

 

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Investigaciones

Scritto da Jessica Moroni. Postato in Performance

Setiembre 2013

intro

Este texto describe un proceso de trabajo, en el que se han fundido estímulos y motivaciones procedentes de experiencias distintas.

Este escrito refleja la necesidad de hablar de mi investigación de una forma descriptiva, y espero que mis obras plásticas y performáticas se ocupen de transmitir algo de lo que no se puede decir o comprender con palabras.

Además esta investigación es un proceso de aprendizaje, que todavía no tiene fin. Los resultados son informaciones que estimulan procesos vitales y reflexiones, que a su vez vuelvo a invertir en las practicas artísticas.

redescubrir el cuerpo

La re-elaboración de encuentros, lecturas, colaboraciones y experiencias directas con mi cuerpo ha sido el causante de este camino, que desde el principio he vivido como un aprendizaje.

El primer input se presentó con el acercamiento a mi cuerpo. Esto sucedió de una forma espontanea e inconsciente: en principio mi forma física y mi manera de estar se me presentaban en cuanto elementos que podía estudiar como algo externo a mí. Me miraba sabiendo que dentro de mi hay huesos, órganos y músculos, pero sin sentir la conciencia de ser estos huesos, órganos, músculos. Hasta entonces todo lo que sabía de mí procedía de una curiosa mezcla entre definiciones externas y procesos de meditación abstractos.

Desde este primer contacto sentí la necesidad urgente de entender las intenciones que habían contribuido a crear mi idea de cuerpo, y porque. Y como esas habían definido una comprensión parcial de mí.Las preguntas entonces surgieron: ¿que construcciones culturales mueven las diferentes partes de mi cuerpo? ¿Hasta que punto influyen en el funcionamiento de mis órganos y con ellos mis funciones vitales? Quise también comprender que es lo que controla mis intenciones, de donde vienen los bloqueos físicos de ciertas partes de mi cuerpo, las posturas incorrectas, o la forma de andar en ciertas situaciones.

Busqué respuestas en los libros y me confronté con profesionales de las terapias alternativas, de la medicina tradicional china y europea, del deporte, de la danza. Me di cuenta de la cantidad de información que hay sobre estos temas, y la viví como una increíble posibilidad de continuo cambio, experimentación, e investigación, de la que poder dejarme guiar.

A la vez que investigaba, mi trabajo plástico se desarrollaba como un mapa dentro del caos de información estimulante que acumulaba. El mismo trabajo me indicaba los puntos claves sobre los que seguir investigando, e hizo posible la asimilación y comprensión de lo que leía, a través de mi cuerpo.

Desarrollé un amplio trabajo performatico, en el que entre otras cosas me di cuenta de que no siempre hay necesidad de un publico, y que lo fundamental de esta disciplina es la autoconciencia.

Trabajé con la figura del laberinto y su imaginario. Mi cuerpo, se convirtió en el terreno de estudio para comprender las relaciones entre emociones y cuerpo, y en el medio para vivir en la práctica estas experiencias. Decidí centrarme en investigar lo desconocido dentro de mi: cerrando los ojos al mundo exterior, me miré desde y hacia dentro, perdiéndome voluntariamente en el laberinto.  

En los laberintos no hay reglas para moverse que no sea el saber escuchar y relacionar: en la oscuridad escuché el silencio y recibí estimulos. Relacioné el cuerpo y la mente según parametros para mi nuevos.

Entre otras cosas, en el laberinto me encontré con el Minotauro. Este personaje rechazado por la familia, aislado por la sociedad y deformado por el abandono y la falta de amor y por lo tanto monstruoso, se convirtió en un simbolo para una nueva lectura de mis experiencias. Este mito revive en todas las situaciones de incomprensión, incomunicación y aislamiento, debidas a falta de amor hacía uno mismo.

Luego empecé con las performances, que han sido mi herramienta principal para trazar lineas abstractas y físicas, con la función de ordenar las experiencias y darles un sentido a la vez linear y circular.

las acciones

Con las performances puse en práctica experimentos con el público o en soledad, siempre buscando datos con los que trabajar, y a la vez acumulando estímulos que se convirtieran en intuiciones y proyectos de trabajo.

La primera propuesta fue una acción sin titulo basada en la improvisación e interacción con el “público”. Encontrándome entre ellas, me acercaba a las personas de una en una y las abrazaba, las miraba, les tocaba el pelo o hacía cualquier otra cosa se me ocurriese.

(acción en JIAAP, primeras jornadas de arte de acción del Pumarejo)

De esta acción surgió otra más elaborada en la que los espectadores se convertían en protagonistas activos. Mi función era simplemente la de guiar el proceso marcando las “pautas”, invitándoles a cerrar los ojos, creando un contacto físico con las personas y estimulando unos movimientos “descontrolados” en cada uno. Según el lugar en donde repetí la acción, y el tipo de público participante, el movimiento individual de cada uno creció, se mezcló con el del vecino, creando una masa orgánica de cuerpos sin intenciones, que se mueven en el espacio e interaccionan limitando el control racional y de la vista.

(EstoQueEs, jornadas de arte transmedia y cuerpo)

Con este trabajo surgieron dos elementos fundamentales de esta investigación, relacionados entre sí: por un lado el movimiento espontaneo del cuerpo, y por otro la percepción a través de otros sentidos que no sea el de la vista que descubrí ser una herramienta autoritaria en la comprensión de ciertos estímulos.

Empecé estableciendo una práctica diaria en la que me dedicaba a través de varios ejercicios a escuchar mi cuerpo y a trabajar mi conciencia corporal. A parte del yoga y algunas otras prácticas, decidí dejar que mi cuerpo se expresara a su manera, con el menor control racional posible. Descubrí muchos movimientos nuevos, que relajan partes del cuerpo que suelen ser muy tensas, encontré una forma de expresión instintiva y siempre actualizada a mi estado emocional: desarrollé una danza liberatoria en donde hay escucha activa hacia dentro de mi y hacia los paisajes sonoros y energéticos de mi alrededor.

Bailaba con los ojos cerrados, para superar las barreras racionales que acompañan mi sentido de la vista, y para no sentir el miedo de poder ser observada en pleno desarrollo de una acción tan intima, en la que me exprso a través del movimiento del cuerpo.

Sigo utilizando esta práctica cada vez que lo necesito, como desahogo o celebración, para estar con migo misma y escucharme, como una práctica personal que no tiene razón de ser enseñada al “público”.

 

 

El otro aspecto fundamental de mi investigación surge de la práctica anterior y se centra en el intento de desarrollar una percepción corporal a través de los otros sentidos excluyendo el de la vista.

Este interés se manifestó realizando los ejercicios corporales que describo arriba: en el desenvolvimiento de mi danza con los ojos cerrados, sentí una gran libertad de movimiento gracias a la superación de las barreras de la timidez (la mínima posibilidad de ser “vista” mientras me expreso con mi cuerpo, siempre ha creado en mi cierto encogimiento).

Al moverme con los ojos cerrados me dí cuenta de la cantidad de estímulos que hasta entonces había marginado, y que quería explorar. Quería ir a fondo de una situación relativamente nueva para mi cuerpo y mis sentidos, así a través de la experiencia directa, el ejercicio diario y el gradual aumento de las dificultades, intenté desarrollar una nueva conciencia corporal.

Al principio trabajaba en el patio de mi casa, un espacio conocido y arquitectónicamente delimitado. Decidí recorrer el espacio según las referencias visuales que tenía en mi mente, para confrontarlas con las sensaciones físicas: entonces lo atravesaba por el lado largo, luego por el corto y finalmente en diagonales, dejándome guiar alternadamente por mi lado derecho e izquierdo. Repetí este mismo ejercicio durante muchos días, y a pesar de las experiencias acumuladas, a veces me encontraba en un estado de pánico hasta el punto que tenía que quitarme el pañuelo de los ojos.

Con el tiempo adquirí habilidades para sentir con antelación el aproximarse de los obstáculos, dejarme guiar por los sonidos o distinguir zonas de luz y de sombra por la diferencia de temperatura.

Entonces introduje el primer elemento, es decir la búsqueda de otra persona en un espacio delimitado. Cuanto más grande era el espacio, más complicado se hacía encontrar la otra persona a “oscuras”, pero a pesar de todas las distracciones con las que podía toparme, comprendí que se puede desarrollar la intuición de la energía vital de otro individuo.

Hice varios ejercicios de paseos guiados por la ciudad en donde me dejaba conducir con los ojos cerrados por otra persona, o yo la llevaba. En estos paseos guiados poco comunes se crearon situaciones que alteraban las relaciones entre las personas, tanto entre las directamente involucradas como en los “espectadores” improvisados. Noté por ejemplo actitudes interesantes en las personas que me guiaban y que se tomaban muy en serio su papel de guías en cuanto a prevenir posibles riesgos físicos. Uno de mis guías se tomó la responsabilidad de elegir un recorrido que consideraba muy bonito estéticamente y a nivel sonoro.

El ultimo paseo guiado lo hice en el mercado central de Mysore, ciudad del sur de la India, en donde me dejé guiar por una colaboradora. Era el final de la tarde y el mercado estaba a punto de cerrar, ya no había casi nadie comprando pero los vendedores seguían en sus puesto recogiendo. El suelo estaba lleno de restos, sobretodo hojas, papeles, flores.

Mi compañera me guiaba con mucho cuidado y protegiéndome, sabiendo que cualquier actitud excéntrica en la India llama mucho la atención, sobretodo si realizada por una mujer occidental. Nunca sabré lo que decían los vendedores desde sus puestos, pero recuerdo oír sus risas, y sentir un poco de miedo en mi y en mi guía.

(acción en el mercado central de Mysore, Karnataka, India)

Cuando me llevan a un paseo guiado a oscuras, me ofrezco a que intercambiemos los roles. La experiencia de acompañar es muy interesante. Desafortunadamente las personas que he acompañado siempre han demostrado menos confianza de la que me esperaba, y supuse que esto se debía a la falta total de ejercicio en moverse con los ojos cerrados, y a la incomodidad social que genera ser visto haciendo algo tan “raro” y llamativo.

Cuando nos movemos con los ojos cerrados en espacios públicos nos sentimos muy expuestos a peligros y a posibles respuestas negativas por parte de la gente, nos sentimos inseguros y vulnerables. Nosotros no vemos nada, pero todos nos ven.

A menudo me he encontrado con personas que se molestaban por no entender la situación, hasta el punto de preguntar por si tenía alguna enfermedad en los ojos.

 

En otras acciones decidí afrontar yo sola el mundo con los ojos vendados, sin acompañante ni testigos. En el primer experimento de este tipo decidí recorrer varias veces el perímetro de una plaza peatonal.

En otra ocasión decidí emprender un proyecto más importante. Recorrí a oscuras la carretera de campo que llevaba a mi casa. Necesitaba experimentar y poner a ulterior prueba mis sentidos, salir del espacio domestico y lanzarme sin ayuda al mundo exterior. En este caso quise generar un documento de la acción y dejándome colgar una cámara a la altura del diafragma grabé un vídeo del recorrido; el resultado son imágenes enigmáticas, confusas y movidas. 

Video

Finalmente tantas experiencias distintas me llevaron a planificar una intervención en un lugar publico donde desarrollar una acción definida: decidí ir con los ojos vendados a un supermercado del centro y hacer una compra mínima. La acción no duró más de media hora pero generó un desencaje en la sintaxis habitual de los acontecimientos (1) causando preguntas, curiosidades, explicaciones e incluso prohibiciones.

La acción se documentó con una cámara y por esto descubrí que en los supermercados no se pueden hacer fotos. Conseguímos realizar la acción justificando que se estaba realizando un experimento destinado a estudiar y mejorar las experiencias de los non-videntes.

(acción en el supermercado)

 

En ocasión del veinte aniversario de Edita (reunión de editores independiente) se celebraron en Granada dos jornadas de performances y poesía. Allí presenté mi acción A oscuras en la que durante dos horas me movía entre el público con los ojos vendados. Mi acción consistía en acercarme a las personas y preguntarle en voz baja que me contasen un secreto, algo de que se querían liberar. A continuación pedía que me apuntasen en un papel unas palabras para resumir el contenido de su historia. La acción terminaba cuando finalmente me quitaba la venda de los ojos y leía los apuntes publicamente.

(Edita Nomada, Granada 2014, organizado por Ángel Sanz Montero e Isabel León Guzman)

Una de las consecuencias de estas acciones a nivel físico es un fuerte cansancio, debido a la necesidad de procesar un gran numero de estímulos nuevos, con herramientas que aún no están lo suficiente afinadas para desarrollar su tarea de la forma más eficiente.

 

 

los cursos

Una de las reflexiones más recientes consistió en adaptar las experiencias realizadas a nivel individual a un formato de trabajo abierto al público proponiendo un “taller de conciencia corporal” en el que se plantean una serie de ejercicios interactivos y de grupo.

El curso está enfocado a trabajar con el cuerpo y los sentidos alterando su normal funcionamiento gracias a la abolición del sentido de la vista. De esta manera nuestras formas de estar y de percibir se ven expuestas a un cambio muy grande al cual cuerpo y mente tardan en adaptarse.

Los ejercicios propuestos quieren jugar con el desencaje y la pérdida generados por lo inhabitual. En estas condiciones, una vez superado el primer estado de inseguridad se puede percibir algo nuevo y con el debate final se observan las distintas experiencias.

Los ejercicios que se realizan acrecen gradualmente la posibilidad de percibir el mundo con herramientas insólitas. Se estructuran desde un nivel básico hasta uno avanzado: se da inicio al curso con ejercicios de concentración y de movimiento espontaneo para relajar la mente, el cuerpo y establecer un dialogo entre los dos. Se trabaja siempre con los ojos cerrados, generando interacción entre los participantes. Los ejercicios se desarrollan en espacios cerrados y abiertos, y el desarrollo de los mismos tiene un carácter experimental, por lo tanto el proceso de trabajo se adapta al grupo.

Sin embargo la confrontación de opiniones sobre diferentes maneras de percibir un mismo hecho permite observar puntos de vistas originales de los que generar nuevos planteamientos.

(Beca Al Raso, organizada por Víctor Borrego, Valle del Lecrín, Granada) 

 

1: Ferrando, Bartolomé. El arte de la performance: elementos de creación. Mahali Ediciones (Stella Cometa, S.L.) Año de la edición: 2009. ISBN: 978-84-613-1524-6.

los cursos

 

bibliografía

Arioti, Maria. Introduzione all'antropologia della parentela. Bari: Editori Laterza, 2006. ISBN: 88-420-7934-0.

Connel, Raewin. Questioni di genere. Bologna: Il Mulino, 2011. ISBN: 978-88-15-23253-3.

Perea, Sabino. El sexo divino: dioses hermafroditas, bisexuales y travestidos en la antigüedad clásica. Alderabán, 1999. ISBN: 978-84-88676-72-6

Rossi Collevati, Sara. Leggende e tragedie della mitologia greca. Gianni Monduzzi Editore, 1998. ISBN:

Del Río Almagro, Alfonso. Nacimiento, cuerpo y muerte a través de la obra de Pepe Espaliú. Córdoba: Fundación Provincial de Artes Plçasticas Rafael Botí, 2002. ISBN: 978-8481544744.

Bertherat, Thérèse; Bernstein, Carol. El cuerpo tiene sus razones: autocura y antigimnasia. Ediciones Paidós Ibérica, 2004. ISBN: 978-84-493-1050-8

Ferrando Colom, Bartolomé. El arte de la performance: elementos de creación. Valencia: Stella cometa Ediciones Mahali, 2009. ISBN:978-84-613-1524-6.

Abramovic, Marina. Daneri, Anna (et al.). Marina Abramovic. Milano: Charta, 2002. ISBN: 88-8158-365-8

Cereceda, Miguel. Problemas del arte contemporáne@: curso de Filosofía del arte en 15 lecciones. Murcia: Cendeas, 2008. ISBN: 9788496898318.

Pera, Cristóbal. Pensar desde el cuerpo: ensayo sobre la corporeidad humana. Madrid: Triacastela, 2005. ISBN: 9788495840243.

Fernández Gonzalo, Jorge. La muerte de Acteón: hacia una arqueología del cuerpo. Eutelequia, 2011. ISBN: 978-84-938733-5-6.

 

 

 

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Performances

Scritto da Jessica Moroni. Postato in Performance

Performance sobre una muerte 

Año de realización: 2009. Duración: 10". Sala Vimaambi, Granada.

 

Realicé este trabajo una única vez, después de afrontar la muerte de una forma cercana. Fue un ritual personal de liberación del dolor, a través de la experiencia pública de este.

Empiezo la acción caminando en círculos, encima de una tela blanca tendida en la calle.

A cada vuelta me acerco a un cubo continente agua sucia, con la que me baño.

Empiezo moviéndome lentamente y poco poco acelero mi ritmo. Me muevo de formas distintas: andando, a cuatro patas, pero siempre mantengo un recorrido circular.

El contacto con el agua se convierte en algo obsesivo y violento. Pierdo el control de mis acciones, pero me dejo guiar por la "música" de fondo.

Termina la primera parte de descontrol, y empieza una fase de descanso, un nuevo principio.

La acción termina cuando me limpio el cuerpo con agua clara.

Utilizo agua sucia y limpia como elementos simbólicos del cambio, y tela blanca como representación física de mi espacio personal en el entorno social.

La acción se inspira en la "Taranta", un fenómeno social del sur de Italia en el que se cree que a través de la música y de la danza se pueden curar las mujeres victimas de la mordedura de la tarántula.


video en youtube

 

 

La casa y la montaña 

Año de realización: 2009. Duración: variable. Sala Rey Chico, Granada.

 

Trabajo de reflexión sobre la vida y la muerte, como continuación del anterior.

Estoy de pies, al centro de un circulo de tierra y elementos orgánicos.

Mantengo casi siempre los ojos cerrados.

Repito constantemente un texto manteniendo un tono de voz suave, lo que obliga a la gente a acercarse para oír.

De vez en cuando me quedo en silencio, abro los ojos y miro a los que me rodean.

Subo el tono de voz, o acelero el ritmo. Invento nuevos textos.

La acción no tiene un final. Simplemente termina cuando me canso, o no queda nadie  escuchando.

 

la casa nos acoge, la montaña                                                   la vida nos acoge, la muerte

la casa nos protege, la montaña                                                     la vida nos protege, la muerte

la casa nos refleja, la montaña                                                        la vida nos refleja, la muerte

la casa nos inspira, la montaña                                                       la vida nos inspira, la muerte

la casa nos respira, la montaña                                                      la vida nos respira, la muerte

la casa nos limita, la montaña                                                         la vida nos limita, la muerte

la casa nos separa, la montaña                                                      la vida nos separa, la muerte

 

 

Vacío no vacío

 Año de realización: 2010. Duración: variable. Sala Vimaambi, Granada. Y Galería Arrabal & Cía.

 

En esta acción interacciono con un muñeco de trapo y llevo un vestido blanco realizado con la misma tela. El vestido tiene una raja a la altura de mi estomago, de donde cuelga una bobina de hilo de coser.

Entro en la sala. El muñeco está tumbado en una mesa. Me acerco a él y le toco con gestos cariñosos.

Saco unas tijeras y las enseño. Las clavo en el torso del muñeco y abro una raja. Meto mi mano en la raja y extraigo hilos de lana roja.

Cojo la bobina que cuelga de mi vestido y enebro una aguja con el hilo. Con la aguja coso la raja del muñeco hasta cerrarla.

Acaricio el muñeco y con gestos bruscos le llevo conmigo.

Fuera de escena ahorco el muñeco en la puerta con el hilo rojo, para que la gente lo encuentre al salir.

 

 

Acción en JIAAP (Jornadas Internacionales de Arte de Acción del Pumarejo)

 Año de realización: 2013. Duración: variable. JIAAP, Plaza del Pumarejo, Sevilla.

 

Esta acción se basa en la improvisación y la interacción con el público. La acción empieza sin ninguna presentación.

Estoy entre el "público" y cuando estoy preparada, me acerco de uno en uno a las personas e interacciono con ellas de forma espontanea, durante el tiempo que quiera.

 

 

Acción en EstoQueEs primeras jornadas andaluzas de arte trasmedia y cuerpo

Año de realización: 2013. Duración: variable. Enclave, Granada.

 

Estoy en el centro de una sala espaciosa. El público de pies se dispone a lo largo de las paredes, todo al rededor. La luz es baja y difusa.

Al principio estoy inmóvil, mirando las personas en los ojos mientras van llegando. Poco a poco dejo que mi cuerpo empiece a moverse. Cierro los ojos.

Con movimientos suaves, orgánicos, busco posiciones cómodas para soltar la espalda y los músculos. Me estiro, bailo, busco movimientos nuevos para mi cuerpo. Improviso todo, siguiendo un ritmo interior y dejándome ir.

Cuando me siento a gusto y totalmente concentrada, me acerco a alguien del publico. Le toco el pelo, la cara, los brazos, las piernas. Le/la masajeo, intento que se relaje, se desinhiba, y empiece a bailar a su proprio ritmo.

Repito lo mismo con otra persona, y otra, y otra. Sigo hasta conseguir que la mayoría de la gente se mueva y baile a su manera, durante un tiempo, hasta que la acción termine sola.

 

 

Sin titulo

Año de realización: 2013. Duración: variable. Enclave, Granada. Organizado por Isabel León Guzman.

 

Acción realizada con Annemarie Banoviez.

Se trata de una acción interactiva en donde proponemos un juego. Nos disponemos de pies, en circulo. Anna e yo damos instrucciones al público: cada participante tiene que susurrar en el oído del vecino una acción a realizar. Para jugar cada participantes es obligado a eseguir la acción.

Además repartimos unas instrucciones escrita en paeplitos que cada participante elige al azar. Además sugerimos que las acciones se repitan varias veces.

El juego empieza. Se encuentran las situaciones más divertidas. Hay mucha interacción entre todos los participantes.

La acción termina de forma espontanea.

 

 

Entre aguas

Año de realización: 2013. Duración: 3.41"

 

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Buscando atún

Año de realización: 2013. Duración: variable. Mercadona, Granada.

 

Se trata de un proceso de trabajo que se basa en ejercicios de conciencia corporal y experimentos en los que intento utilizar un gesto mínimo para “subvertir la sintaxis habitual de los acontecimientos” (B. Ferrando).

Andar a ciegas, moverme con los ojos vendados es un simple gesto que he incluido dentro de mis acciones cotidianas y gracias al cual me he permitido conocerme fuera de las normas, jugando con los limites del sentido común tanto a nivel individual e intimo, como en una búsqueda publica y socialmente visible.

El hecho de no ver se ha convertido en una clave de lectura transversal sobre mi experiencia de vida, permitiéndome desarrollar reflexiones nuevas sobre mi manera de estar en el mundo y relacionarme con ello. Y desarrollar un nuevo conocimiento de mi cuerpo, de sus limites y de nuevas formas de superarlos, a través de una escucha activa, articulada e intuitiva del cuerpo y de sus poderosas herramientas.

 

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A oscuras

Año de realización: 2013. Duración: variable. Edita Nómada en Granada, organizado por Ángel Sanz Montero.

 

Acción realizada en la edición de "Edita Nomada" en Granada.

Propongo a los asistentes que me confien algun secreto, o algo que no hayan podido decir antes: palabras atrapadas, olvidadas, escondidas.

Estoy con los ojos vendados y me acerco a las personas presentes de una en una, estableciendo una primer contacto fisico. Cuando alguien me confia su secreto, le pido que lo apunte en mi libreta y doble el papel para que nadie más pueda leer.

Al final de la acción, abro los ojos quitandome el pañuelo, y leo en voz alta las frases que he recolectado durante la acción.

 

 

Yoga

Año de realización: 2015. Duración: 30'' en distintos lugares.

 

Trabajamos en grupo de 7-8 personas pero nos movemos en parejas o por separado.

Entramos en diferentes lugares: tiendas de ropa, bares, cafeterías, o permanecemos al aire libre, en plazas o calles.
Al escuchar el sonido de una campana tibetana, todos entramos en nuestra posición de yoga, improvisando en función del espacio disponible, y la mantenemos hasta que suene la campana de nuevo.
A continuación dejamos el sitio.